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Prefazione di MARCO SOMMARIVA del libro

CYBORG

Perchè diventiamo ogni giorno più simili alle macchine e come l’istituzione scolastica contribuisce a traghettarci verso l’Homo post-human
di Marco Piracci


Edizioni La Fiaccola, collana Biblioteca libertaria, p. 88. euro 10,00

Prefazione di Marco Sommariva

Benché abbia stentato ad accettare l’invito a scrivere questa prefazione – per via che non ne avevo mai scritto prima, non per altro – ora sono soddisfatto d’aver acconsentito. Soddisfazione che nasce dal poter dare questo mio piccolo contributo a un libro capace di esporre in maniera chiara i rischi che si corrono, oggi, nel seguire ciecamente i dogmi contemporanei, il falso mito della crescita, scientifica e tecnologica; a un libro ricco di citazioni che, fra le altre cose, ci fanno comprendere da quanto tempo filosofi, psicologi, scrittori, storici e saggisti ci avvertono quale strada abbiamo intrapreso e dove stiamo andando a parare: o invertiamo la rotta o l’innovazione tecnologica ci renderà ancora più schiavi sino a vivere in una totale alienazione. 

Queste pagine ci ricordano che sono ormai numerosi gli studi di psicologia che ci mostrano come una cultura orientata al costante e continuo miglioramento non motivato da contingenze storico-culturali, produca tipi di malessere quali ansia e depressione, e questo perché non fa che svilirci ritenere che non siamo sufficienti a noi stessi e che necessitiamo di sempre maggiori innovazioni tecnologiche; che la Tecnica riesce a esercitare su di noi una specie d’ipnosi facendoci avvertire un Tutto da cui, però, ci sentiamo staccati, distanti e che di questo ne soffriamo; che non possiamo fare a meno dell’intensa relazione sog- getto-oggetto, esseri umani-natura che è quella che ci dà la consapevolezza del mondo esterno percepito come prosecuzione di ognuno di noi; che perdere il contatto con la Natura ci porta a prestare poca attenzione a quanto e come si modifica il mondo attorno a noi, noi compresi; che senza rendercene conto diventiamo insensibili, freddi e razionalisti, e questa sempre maggiore incomprensibilità della Vita aumenta la nostra solitudine che cerchiamo di curare con le certezze della Scienza senza, però, renderci conto che questo bisogno conduce alla cieca subordinazione dalle macchine e alle verità che queste costantemente ci impongono. 

L’essere umano fiducioso ha cessato di essere un individuo razionale e indipendente. Tutto questo accade anche perché nella cultura occidentale il cambiamento assume in sé un ruolo positivo, poiché strettamente collegato alla visione dominante della Storia come progresso; in questa prospettiva, il presente è migliore del passato e peggiore del futuro. È la cultura affermatasi nel mondo occidentale che crea il costante bisogno psicologico di dominare, di crescere, di svilupparsi, che non conosce il rispetto né l’accettazione della Natura: razionalismo, scienza e tecnica assunti a nuovi dogmi religiosi finiscono in- direttamente per vietarlo. 

Ma per fortuna la cultura occidentale non è l’unica, e a questo proposito il libro che avete fra le mani ci ricorda che esistono popolazioni organizzate su modelli prevalentemente rurali, come esistono popolazioni rimaste primitive, dove a prevalere non sono l’arroganza, la prepotenza e la competizione ma la solidarietà, l’equità e la cooperazione; che gli stessi Stati premiati per il miglior indice d’innovazione tecnologica sono quelli in cui è diffusissimo l’utilizzo di psicofarmaci ed elevato il numero di suicidi – ogni 100.000 abitanti si registrano 11,2 suicidi in Svizzera, 11,8 nel Regno Unito, 12 in Svezia e 12,5 negli Stati Uniti – cosa che non accade, invece, nei Paesi con indice tecnologico molto basso – in Giamaica si registrano 0,1 suicidi ogni 100.000 abitanti. 

Altri spunti di riflessione di questo libro ci vengono offerti da alcune considerazioni di Erich Fromm riportate puntualmente da Piracci: soffriamo di un’attrazione profondamente emotiva per la meccanica, per tutto ciò che non è vivo e che è costruito dall’uomo e questo perché la gente vuole controllare la vita perché è spaventata dalla sua irrefrenabile spontaneità e preferisce ucciderla anziché esporsi al suo impeto e fondersi con il mondo circostante; scherza spesso con la morte perché non è attaccata alla vita; il suo coraggio è quello di morire e così il presente ci mostra già uomini che agiscono come robot e se la maggioranza degli uomini sono come robot, allora il problema di costruire robot simili agli uomini non sorge più. Considerazioni che ci mettono in guardia: davvero non esiste una visione differente del futuro? Davvero non vogliamo contrastare il dominio tecnologico in nome della Vita? Non scherziamo. Il potenziale lo abbiamo: va trasformato in cambiamento reale, concreto. E il primo passo da fare è smettere di credere alla propaganda occidentale: non è vero che c’è un solo inevitabile futuro ad attenderci. Il secondo passo ce lo suggerisce un vecchio adagio citato su queste pagine, un proverbio di una delle culture alternative alla nostra, quella africana: «Se siamo soli a sognare non sarà che sogno, se sogniamo insieme è l’inizio della realtà». 

Porci delle domande è un altro passo per provare a evitare futuri spaventosi, e questo testo ben strutturato può aiutare tantissimo in questo senso. Alcuni esempi. Stiamo distruggendo il pianeta nel quale siamo nati e invece di difenderlo, pensiamo a colonizzarne altri: perché la stessa logica che ci ha portato alla distruzione del primo, non dovrebbe condurci alla distruzione anche di un secondo, terzo, quarto? Siamo nati sul pianeta Terra e le nostre esigenze interiori sono a questo collegate, quindi, passeggiare in un parco ci ricarica emotivamente mentre l’utilizzo dell’auto è una fonte costante di stress: se già in auto c’è un’alterazione negativa del nostro stato psichico, cosa accadrebbe den- tro delle “gabbie” in movimento per la galassia? Perché, invece, non ri- prendiamo il modello dei popoli che ancora oggi vivono di caccia e raccolta? Perché ci adattiamo a tecnologie che comunemente utilizzano unità di tempo come il picosecondo (un millesimo di miliardesimo di secondo) o il nanosecondo (un miliardesimo di secondo) difficilmente compatibili con i nostri tempi vitali, con le nostre esigenze di esseri viventi? Perché tramite la Rete forniamo costantemente dati aggiornati a strutture pubbliche e private riguardo il nostro orientamento politico, sessuale, culturale? Perché accettiamo l’avanzare di un linguaggio che globalizza la parola modellandola su esigenze tecniche, standardizzandola, espellendo lingue e dialetti? Perché siamo arrivati a non porci più il problema dell’acqua inquinata ritenendolo risolto dato che il depuratore funziona? Perché a scuola si studia un fiore mettendone in evidenza le parti che lo compongono e non il suo “rimando” al mondo naturale? Nonostante esempi come quello di Zola che prese zero in letteratura alle superiori o di Cézanne che fu respinto dall’Académie des Beaux-Arts, perché la cultura presente nella scuola è ancora un baluardo della riproduzione ideologica del Sistema? Com’è possibile non capire che se abbiamo bisogno di quello che l’innovazione tecnologica costantemente crea non arriveremo mai a una soddisfazione dei nostri bisogni? Perché non c’impegniamo a combattere il desiderio di sconfiggere gli altri eliminando le pressioni culturali che già da bambini subiamo non solo a scuola? Perché abbiamo smesso di ascoltare gli anziani considerati al pari di un calcolatore elettronico divenuto obsoleto? 

Di sforzi ne dobbiamo fare diversi. Uno di questi è seguire l’esempio dato da Piracci, ascoltare, leggere ciò che è già stato detto, scritto; ma visto che ha invaso la nostra quotidianità, “leggiamo” anche la tecnologia per difenderci. Un esempio? Alcuni versi dello scrittore e poeta svedese Harry Martinson (1904-1978) recitano così: «Si leva il condor al di sopra delle reti e delle trappole dell’inca / lassù dove nessuno lo disturba / Così in alto sale che la terra una pillola diventa / laggiù sospesa». È un esempio di come certi pensatori riescono a vedere in anticipo le cose; in questo caso, la Terra è ridotta a pillola, una prospettiva che ebbe vasta diffusione solo quando ci giunsero le immagini a colori dai viaggi sulla Luna negli anni Sessanta. Prima di quelle fotografie, alle preoccupazioni per le minacce al nostro pianeta si controbatteva con antiche leggende circa la sua smisurata grandezza: qualche devastazione qui poteva essere compensata da aria e acqua più pulite là e da una sconfinata natura incontaminata in qualche altro posto ancora più lontano. Insomma, non sottovalutiamo la parola di nessuno specie in un’epoca dove è già in atto il tentativo di globalizzarla e, senza farci fagocitare, utilizziamo la Tecnica a nostro pro: quelle fotografie furono probabilmente più importanti di qualsiasi discorso perché molti giungessero alla conclusione che la fase coloniale nella relazione tra esseri umani e natura doveva terminare. Un’utopia? Una delle tante utopie? A questo proposito, chiudo con le parole del giornalista, scrittore e saggista uruguaiano Eduardo Galeano: «L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi e si allontana di due passi, cammino dieci passi e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare». 
Marco Sommariva