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Lottavo romanzo


ROMANZO (2013)
Edizioni Sicilia Punto L

Prefazione di Haidi Gaggio Giuliani

Si legge di un fiato. O meglio: gli occhi corrono avanti, leggendo, ma la testa più lenta ti obbliga a ritornare alla frase o al capitolo che hai appena lasciato. O per lo meno: a me è successo così. Al contrario, ho deciso in fretta e senza ripensamenti che mi piace, questo amaro romanzo di lotta. Di lotta e di memoria, perché senza questa non può esistere seriamente neppure quella.
Pagina dopo pagina, legate le une alle altre come nella vita, si intrecciano, si accompagnano, si aggrovigliano le esperienze dell’autore a quelle vissute dagli amici, dalla famiglia: è un continuo andare e ritornare, e il viaggio provoca sofferenza.
Non ho uno straccio d’idea di ciò che devo essere, e questo mi dà l’idea di ciò che sono. Soffro, scrive Marco.
In realtà le figure del padre, del nonno, dello zio, perfino nelle difficoltà o nei vizi, appaiono come giganti, per come sono descritte e raccontate, in confronto ai personaggi del presente, agli amici sconfitti dall’esistenza. Ricordo un giorno di molti anni fa, più di quaranta: guardavo, insieme a un compagno in tutti i sensi più grande di me, un corteo di studenti. “Questa nostra bella gioventù”, disse lui con gli occhi che gli ridevano per la contentezza. Aveva ragione. Quei ragazzi e quelle ragazze esprimevano felicità: volontà di lotta e insieme gioia di vivere, allegria e consapevolezza. Dove sono finiti, mi domando mentre leggo Lottavo romanzo. Poi ricordo che allora non erano ancora state dichiarate molte guerre nei confronti dei giovani.
Tra le prime a cominciare c’è stata la guerra della droga. Sul fronte come nelle retrovie ne vengono sterminati tantissimi, spesso i più sensibili, non sempre i più fragili, in prevalenza maschi, di famiglia ricca e borghese come operaia. Le leggi approvate in Parlamento si accaniscono sempre più nei confronti di chi ne fa uso e degli spacciatori piccoli e piccolissimi, che diventano di conseguenza vittime privilegiate della repressione, delle squadre appositamente addestrate, e finiranno per intasare, insieme agli immigrati “colpevoli” di clandestinità, il sistema carcerario nazionale. Chi ha il compito di condurre la lotta alla droga in qualche caso si lascia sedurre dal profumo che questa emana, profumo di soldi, di grandi e facili guadagni. Un esempio per tutti. A Genova nel 2001 c’è, tra gli altri, il generale Giampaolo Ganzer, capo dei ROS (Reparti Operativi Speciali). Il generale ha condotto numerosi arresti di manifestanti, famoso quello dei teatranti austriaci “colpevoli” di essersi esibiti vestiti di nero. Gli uomini del generale inoltre compilano il dossier in base al quale vengono arrestati, inquisiti, intercettati gli attivisti della Rete del Sud ribelle, che verranno assolti definitivamente dal tribunale dopo anni di persecuzioni giudiziarie, tre gradi di giudizio e molte spese. Perché lo ricordo? Lo stesso generale, oggi in pensione, è stato condannato due anni fa in primo grado per traffico internazionale di stupefacenti.
I “tossici”, come vengono definiti con disprezzo da una opinione pubblica condizionata, o “i miei drogati di merda”, come li chiama con autentico amore don Gallo che ha dedicato a loro gran parte delle sue forze, costituiscono un notevole business per associazioni affaristiche celate sotto l’etichetta del no profit. Ma io sto esulando dal tema.
Parallelamente alla guerra della droga è iniziata la grande paura, l’infezione da Hiv. Già il “Mostro di Firenze” aveva raggelato i sani desideri dei giovani toscani, la diffusione dell’Aids mette paura a tutti e a tutte. La mia generazione si era appena liberata da un’educazione sessuofobica leggendo Reich (1), e non solo. La “peste del Millennio”, inizialmente considerata morbo dei gay e dei drogati, ha condizionato la vita affettiva e sociale delle generazioni seguenti. Le prime vittime naturalmente erano giovani. Oggi è diventata la malattia dei poveri del mondo, di quei Paesi cioè che non possono permettersi le nuove cure antiretrovirali, quelle cure che hanno iniziato a far diminuire costantemente il numero dei morti nell’emisfero del mondo privilegiato. Pare che per le case farmaceutiche non costituisca più un affare: la Svezia, l’Olanda e la Gran Bretagna hanno già iniziato a tagliare i fondi per la ricerca. Con l’inevitabile rischio di recrudescenza della malattia anche nei Paesi più sviluppati.
Facciamo dei lavori di merda per guadagnare il denaro che spenderemo per acquistare della merda di cui non abbiamo bisogno, prodotta da chi fa lavori di merda come il nostro, scrive Marco.
Con la guerra del mercato si è sviluppato enormemente il precariato, che ha colpito da subito i ragazzi e le ragazze per poi diffondersi senza riguardo all’età. Per la mia generazione e per quelle precedenti il lavoro era un valore, forse il valore più grande. A cominciare dagli anni Ottanta ai valori si sostituiscono gli interessi. Sono abbastanza vecchia per aver visto, lungo tutta la mia esistenza, il mercato crescere a dismisura. E’ il mercato ormai che regola le nostre vite, che impone i ritmi del dovere e dello svago; che deturpa le nostre città con cartelloni pubblicitari sempre più grandi e invasivi e luminosi; che si insinua nelle nostre case con la carta stampata e attraverso lo schermo televisivo; che decide quali scuole dobbiamo frequentare, quali film dobbiamo vedere e quali libri dobbiamo leggere.
Ha scritto Pino Cacucci in un libro che trenta autori, compreso Marco, hanno dedicato a Carlo Giuliani: “… Fidatevi del Mercato, adoratelo e Lui risolverà tutto, perché è come Dio: basta lasciarlo fare, seguirne il verbo, e regnerà la concordia. Abbiamo osato dire che era un inganno, abbiamo sfidato il nuovo Dio, e allora la rabbia e il disprezzo si sono trasformati in furore cieco, in violenza di parole e di piombo, pesanti le parole, pesanti i manganelli, pesante il fumo dei lacrimogeni, e infine il piombo in faccia, per chi come te ha avuto la dignità di alzare la testa. Avevi ragione, ma la ragione non era prevista: la testa doveva restare china davanti all’altare del nuovo Dio. Quello che produce corruzione, e quindi ricchezza per i farabutti…” (2).
La mia parte politica, la sinistra, ha responsabilità enormi in questo stato di cose. I padroni, che oggi si nascondono nei grandi gruppi finanziari, pensano come sempre solo ai propri interessi, sono allergici alla nostra Carta Costituzionale che parla di solidarietà, di pari opportunità, di progresso; che fonda la cosa pubblica sul lavoro. Ma noi, la sinistra, che cosa abbiamo fatto, che cosa abbiamo permesso che facessero in tutti questi anni?!
Qualcuno lo denunciava già da tempo, oggi è sotto gli occhi di tutte le persone che non si rifiutano di guardare: un governo complice sta scardinando materialmente i principi e le regole della nostra Costituzione, cancellando conquiste di civiltà del lavoro, distruggendo le garanzie del sistema previdenziale, legando le mani all’iniziativa pubblica con l’obbligo al pareggio di bilancio, ipotecando ogni futuro progresso sociale ed economico con la ratifica del famigerato fiscal compact.
L’uccisione di Guido Rossa mi fece crollare il mondo addosso. Era il mondo di un adolescente, d’accordo, ma era pur sempre il mio mondo, scrive Marco.
Sì, c’è stata anche la guerra del terrorismo. Quello fascista, che è stato anche l’autore delle grandi stragi, in cui come abbiamo saputo erano implicati carabinieri, servizi segreti, vari Uffici Affari Riservati del Viminale. E quello di sinistra, fino alle BR, anch’esse colluse alla fine con pezzi deviati dello Stato e criminalità organizzata. Non ho mai condiviso una lotta armata che non fosse di popolo: quando resta un fenomeno di pochi, o addirittura di pochissimi, non può sfuggire alla degradazione a terrorismo. Ho sempre condannato azioni che colpiscono singole persone invece di colpire un sistema. Penso che ciascuno debba fare i conti con la propria storia e anche con i propri errori. L’ho detto molte volte e lo ribadisco. Ho tuttavia il dovere di continuare a pormi delle domande, Ci sono domande che ti spellano la vita, come scrive Marco.
Perché hanno mandato contro noi, giovani sognatori di allora, le camionette di polizia e carabinieri che, anche allora, sparavano nelle piazze (le forze dell’ordine sono sempre state uno strumento del potere, che resta il principale responsabile della repressione). Hanno usato fascisti, servizi segreti, bombe. Hanno criminalizzato un’intera generazione. Hanno criminalizzato parole come comunismo, compagno, lotta di classe. Hanno confuso tutto, grandi ideali e tragici errori, generosità e bassi interessi. Su quella storia degli anni Settanta e Ottanta esiste solo una verità giudiziaria parziale, spesso contraddittoria: non c’è mai stata la volontà politica di fare chiarezza.
Intervistato da Stefano Tassinari, Erri De Luca dice: “Non ho un rapporto obbiettivo con quella violenza perché ci sono stato dentro, perché la ho conosciuta, la ho subita e la ho ammessa. La mia generazione ha ammesso il massimo di violenza possibile e dunque non ne ho un rapporto distaccato. In seguito alla violenza, fatta e subita, una quota della mia generazione è ancora trattenuta, sta ancora in fondo al sacco delle detenzioni penali del Novecento, per le lotte politiche del Novecento. Per me questa è una lesione che non si può ricucire se non quando questa generazione non sarà restituita al mittente, ossia a casa. Fino a quando questo non succederà non sarò lucido, apparterrò al deposito penale del Millenovecento”.
La fame non aiuta a ragionare, anche se aver patito la fame aiuta a capire molte più cose. Mi viene il magone a pensare a quante guerre ancora oggi sono sparse per il mondo, a quanta fame ancora oggi esiste e, spesso, neanche provocata direttamente da una guerra, scrive Marco.
Già, le persone muoiono a milioni ogni anno, di fame, di sete, di malattia: perché il cibo glielo hanno tolto da secoli con la monocoltura; l’acqua non gliela danno perché un pozzo costa come la paga settimanale di un soldato mandato ad ucciderle; le medicine non gli permettono di produrle senza licenza e con la licenza alcune costano come dieci anni del loro salario. Muoiono a milioni i bambini, ma c’è chi si preoccupa di difendere un embrione e impedisce la ricerca che potrebbe salvare delle vite già sbocciate. Che importa: quelle non sono rose, hanno solo antiestetiche spine. Muoiono esseri umani, a centinaia e migliaia, sotto le bombe democratiche sganciate da aerei che hanno i simboli e le bandiere della democrazia, o colpiti da armi totalitarie fornite a chi le impugna da fabbriche democratiche di paesi dei quali si esalta la democrazia.
Come schiavi, lavorano ogni giorno, dodici e più ore al giorno, per mezzo dollaro, e producono i nostri vestiti, le nostre borsette, le nostre scarpe, le nostre magliette, che quindi si vendono a meno che se le producessimo qui da noi, ma costano ancora meno e garantiscono margini enormi. Vengono a lavorare anche da noi, in nero ovviamente. Poco importa se clandestini, anzi meglio, così la schiavitù aumenta. Tanto chi inneggia alla legalità non comincia mai dalla testa, cioè da chi sfrutta, ma sempre dal fondo, da loro, dagli ultimi. E ce ne parlano, nei telegiornali o in quei dibattiti, spesso noiosi, o irritanti e scomposti, nei quali si duella sul nulla. Ci dicono: vedete, se non ci fosse il libero mercato, se non ci fosse la nostra democrazia, anche noi staremmo così male. Quindi difendiamo il mercato, difendiamo la democrazia.
Ci fanno vedere le donne velate, col burka. Volevano farci credere che adesso ce ne sono di meno ma dipende da chi le fotografa. Qui, per farci apprezzare la differenza, parlano delle quote rosa. Intanto mettono il burka anche a noi, negandoci il diritto alla memoria, confondendo perfino i partigiani con i repubblichini di Salò. Ci mettono il burka della “superiorità occidentale”, dell’”emergenza sicurezza”, della paura dell’altro, del “diverso”. Il burka dei falsi bisogni, con l’ansia per un lavoro che oggi c’è e domani chissà. Il burka di una scuola concepita come un’azienda, anziché come un laboratorio di cultura, dove figli e figlie, nipoti e nipotine devono competere, anziché crescere serenamente e formarsi ciascuno la propria personalità.
Il magone di cui parla Marco, anche quello fa parte della guerra. Dei tempi andati rimpiango tanto una certa allegria: quella di oggi non mi piace, è ostentata, è fasulla, è solo isteria malcelata, scrive.
Eppure una forza c’è, per resistere, per reagire: sta in quello spirito antifascista che permea tutto il libro. Sta nella memoria, che ci aiuta a guardare avanti.
A testa alta.

Haidi Gaggio Giuliani
https://it.wikipedia.org/wiki/Haidi_Giuliani

• Wilhelm Reich, "La rivoluzione sessuale" Feltrinelli, Milano 1972
• "Per sempre ragazzo" Marco Tropea editore, 2011

Recensione di Pino Bertelli

Il romanzo di Marco Sommariva (Lottavo romanzo) è una salutare lettura sulla giovinezza di una stagione all’inferno forse… quella dei ragazzi di un’infanzia interminabile, anche se difficile. I ragazzi poveri che hanno attraversato il secondo conflitto mondiale e da subito sono diventati uomini in grado di aiutare le famiglie (non importa in quale modo) ad affrontare un’esistenza cruda, sovente intollerabile. Insomma è la storia di quei ragazzi cresciuti nelle strade, liberi anche di fantasticare un divenire meno feroce ma non per questo inadatti a conoscere la libertà di gioire delle piccole cose e sognare di rovesciare un mondo ingiusto. Sommariva li descrive (in prima persona) con cruda verità: antifascisti, libertari, libertini. Figli di padri indocili, di memorie storiche intrise di sangue, di fame di verità e bisogno di amare e di essere amati. La miseria del dopoguerra è dipinta come una culla dolorosa, ma anche felice ed educativa, rimanda alla bella gioventù degli anni ’60, agli “anni di piombo”, alla società mercantilista a venire – che ha ingoiato la tempesta e lo slancio della generazione libertaria del ’68 –, passa nelle parole sentite dell’autore che si accordano con l’autobiografia della sua famiglia. L’anarchia di Sommariva è radicata, intreccia passaggi esistenziali ed emozioni forti, invita a un cammino in libertà e fa della dignità calpestata degli ultimi il diritto di respingere dappertutto l’infelicità. Le lotte che racconta sono le stesse che molti hanno dimenticato e l’invito alla rivoluzione dell’intelligenza svela il disagio a vivere quanto a fare dello stupore e della meraviglia i grimaldelli di una vita – più giusta e più umana – tutta intera da conquistare (i mezzi sono tutti buoni). Il libro si chiude o, meglio, si ri/apre con Lottava rima (una poesia/testo) del cantautore Alessio Lega, che riprende la rivolta sociale di Genova nel 2001 e si fonde con il narrato di Sommariva nell’indignazione contro la rapacità delle istituzioni… a conferma che la storia ufficiale non è che una sfilata di falsi assoluti, una successione di altari innalzati a pretesti utili alla domesticazione degli uomini. Lottavo romanzo dunque, non è solo un romanzo, ma una sorta di manifesto libertario contro morali, codici, dottrine che continuano a perpetuare la secolarizzazione delle lacrime. Ma la miseria, la repressione, lo sfruttamento non sono un destino e nemmeno un’eredità, sembra dire rabbiosamente Sommariva, sono condizioni imposte e vanno sconfitte. La libertà è una creazione dei nostri eccessi e delle nostre disobbedienze, e per la libertà, come per l’amore, anche il più estremo, non ci sono catene.
Pino Bertelli
http://pinobertelli.it/
https://pinobertelli.wordpress.com/


Recensione di Guido Barroero - Umanità Nova

Non è il primo romanzo di Sommariva che leggo, né il primo che recensisco, ma faccio entrambe le cose sempre con molto piacere. L’occasione precedente è stata l’uscita de “Il venditore di pianeti”, un romanzo inusuale che, come scrissi a suo tempo, sotto la forma di “flusso di coscienza” rappresentava le peregrinazioni di un novello Leopold Bloom in una Sestri Ponente surreale, straniata e magica, piccola Dublino del ponente genovese. Peregrinazioni tra personaggi stralunati e un po’ folli, ma non implausibili per chi ha vissuto nel microcosmo sestrese. Un romanzo, in definitiva, molto bello e innovativo, ma anche criptico e difficile da decifrare per chi sestrese non è.

Tutt’altro taglio ha “Lottavo romanzo”, sempre con l’ambiente sestrese sullo sfondo, più tradizionale come stile e più radicato nella realtà sociale dei nostri tempi in cui vivono e si muovono i suoi personaggi. E lottano. E ricordano. E soffrono. Perché – come scrive Haidi Gaggio Giuliani nella sua bella prefazione – Lottavo romanzo è un “amaro romanzo di lotta. Di lotta e di memoria, perché senza questa non può esistere seriamente neppure quella. Pagina dopo pagina, legate le une alle altre come nella vita, si intrecciano, si accompagnano, si aggrovigliano le esperienze dell’autore a quelle vissute dagli amici, dalla famiglia: è un continuo andare e ritornare e il viaggio provoca sofferenza”.

La sofferenza del presente, le sue miserie, la sua banalità, la sua insensatezza (“Facciamo dei lavori di merda per guadagnare il denaro che spenderemo per acquistare della merda di cui non abbiamo bisogno, prodotta da chi fa lavori di merda come il nostro” scrive Marco), traspaiono con forza dalla narrazione e connotano il romanzo come opera di forte denuncia sociale (direi politica se il termine nell’accezione comune non fosse ormai discreditato, se non disprezzato) che emerge, inevitabilmente, dal privato dei personaggi, dal loro vissuto, dai loro ricordi. Oppure dal raffronto tra la generazione dei protagonisti (dunque, immagino, quella di Marco stesso) e quelle degli anziani (il padre, lo zio, il nonno dell’io narrante) che, come scrive l’autrice della prefazione che “perfino nelle difficoltà o nei vizi, appaiono come giganti, per come sono descritte o raccontate, in confronto ai personaggi del presente, agli amici sconfitti dall’esistenza”. Perché c’è sconfitta e sconfitta – come c’è movimento di lotta e movimento di lotta a cui questa segue –, c’è quella “nobilitata” dai grandi eventi e anche dalle tragedie (il riscatto dal fascismo con la lotta partigiana), c’è quella maturata dopo l’ondata di entusiasmo e di speranze del maggio francese e dell’autunno caldo, c’è quella del ’77 e della lotta armata e così via, sino a sfumare nel grigiume degli ultimi anni, dove le sconfitte seguono semplicemente altre sconfitte. Ed è molto diverso venire da una stagione di speranze, anche se deluse, piuttosto che ereditare fallimenti a cui si sommano altri fallimenti. Forse questa è la chiave di lettura più pertinente della rabbia che permea il romanzo di Marco Sommariva. Una rabbia che ogni generazione prova contro l’ingiustizia sociale nelle sue varie forme, ma che anche è alimentata dal malessere generato dal non saperla canalizzare nell’energia necessaria per dar vita ad un processo di trasformazione sociale che, partendo dal singolo, realizzi solidarietà reale. Una rabbia, dunque, che può produrre rancore verso gli altri che non capiscono, che non condividono, o quelli che ci hanno lasciato in eredità una società marcia quando avevano avuto (almeno così pensiamo) la possibilità di rigenerarla, o noi stessi che (nel nostro piccolo) stiamo facendo lo stesso, o anche delle nuove generazioni che ci appaiono (al di là dei loro “demeriti” oggettivi) vacue, superficiali e ignoranti.

Ma torniamo al romanzo, la domanda è: hanno speranza i suoi protagonisti? O meglio, passando al mondo reale del quale sono riflesso, abbiamo speranza noi? E poi, ci aiutano le loro inquietudini, il loro malessere a decifrare i nostri? Alla prima domanda non so rispondere, alla seconda rispondo probabilmente sì. Sicuramente possono aiutare i giovani, magari anche semplicemente rendendoli consapevoli che il mondo non è iniziato con loro e che il “mal di vivere” ci appartiene, appartiene a tutti.
Guido Barroero



Recensione di Mimmo Mastrangelo - Liberazione

"Lottavo romanzo", andirivieni tra passato e presente

La voce narrante è un uomo di cinquant’anni e anche l’autore ha la stessa età. I fatti narrati in “Lottavo romanzo” (Edizioni Sicilia Punto L) si svolgono tra Sestri Ponente e Genova, cioè dove vive da sempre Marco Sommariva (l’autore), il quale non ha dato alle stampe un romanzo autobiografico, ma in esso lascia trasparire forti richiami alla propria vita e, in particolare, agli anni bellissimi della formazione e giovinezza. Questo suo ultimo lavoro è, tuttavia, un continuo andirivieni fra il presente e il passato, fra un tempo (oggi) in cui si vanno spegnendosi via via tutte le passioni, lasciando prevalere un quasi generale stato di tarme e un tempo (ieri) in cui gli entusiasmi erano così forti da oscurare ogni delusione o sconfitta.

Ma che opera è “Lottavo romanzo”? Per rispondere si possono prendere a prestito parole che lo stesso Sommariva ha impaginato. Lascia un vuoto, ma non perché una volta letto si scopre come una delusione. Tutt’altro. È esattamente quel “vuoto contrario” che rode dentro, che si manifesta quando si finisce di leggere veramente un bel libro: può lasciare delusione questo “vuoto contrario” solo perché non ci sono più pagine da leggere, solo perché abbassa il sipario sull’ultimo rigo, sulla lettura della frase finale che nel libro di Sommariva è «eppure il vento soffia ancora». Un epilogo che è quasi un invito a non abbassare la guardia.

“Lottavo romanzo” è incartato in brevi capitoli che mettono in luce le figure dei genitori, dei nonni, degli zii da cui il protagonista (che non ha un nome) non ha dovuto subire nessuna imposizione, ma sul bagaglio dei loro ideali ha impiantato il seme di una tensione libertaria e dell’antifascismo: «sono orgoglioso di essere figlio di due antifascisti». La voce narrante ci fa sapere che da bambino nella sua famiglia non si sguazzava nell’oro, ma si riusciva, comunque, a menare una vita dignitosa, invece, allo stato attuale, forte per lui (e per tanti) è diventato il rischio di cadere nella miseria più nera, nonostante un benessere generale della società che è solo apparenza. Il personaggio di Sommariva, nel frattempo, si chiede pure se è più fortunato lui che ancora sopravvive, oppure quegli amici che hanno sputato sulla propria vita iniettandosi eroina nelle vene. Ha la rabbia dentro il Nostro, è contro tutti quegli stupidi che hanno permesso di trasformare, a causa della loro eccessiva prudenza, «le zoppicanti democrazie in solidi regimi». Gli rode il fegato ma, ciononostante, l’alter-ego di Sommariva si sente uno scampato, il suo essere libertario gli ha garantito un salvacondotto, «l’anarchia» – sentenzia - «mi ha fatto deporre le armi che lo stato voleva farmi impugnare» e aggiunge che «oggi si fa la lotta armata sparando cazzate, anestetizzanti dell’ignoranza».

Un romanzo duro, durissimo è questo lavoro di Marco Sommariva, guarda indietro, lontano da questo nostro tempo affollato da smidollati alla ricerca smodata di un facile accumulo di denaro. Una contemporaneità in netto contrasto con quegli anni della giovinezza, quando la bellezza la si poteva rintracciare nell’ideale in cui si credeva o in una giornata di rivoluzione o in un semplice atto di ribellione; «un atto di ribellione pervaso d’amore», come riporta in versi il cantautore Alessio Lega nel componimento “Lottava rima” che fa da postfazione al narrato di Sommariva, mentre in prefazione Haidi Gaggio Giuliani – la madre di Carlo, il ragazzo ucciso da un carabiniere durante il G8 del 2001 a Genova –, invita a non mollare: «Eppure una forza c’è per resistere, per reagire – scrive – sta in quello spirito antifascista che permea tutto il libro. Sta nella memoria, che ci aiuta a guardare avanti. A testa alta».
Mimmo Mastrangelo



Recensione di Marco Pandin - Rivista Anarchica

Con Vladimir Vysotsky nel cuore

Lottavo romanzo (Sicilia Punto L, Ragusa, 2013, p. 165, € 10,00) raccoglie ventinove scritti piuttosto brevi di Marco Sommariva e un testo finale, che mi figuro con i piedi ben piantati in musica, di Alessio Lega. È uscito quest'estate e l'ho letto disordinatamente e più volte, in treno, a casa, in giro. Solo una volta – l'ultima – l'ho letto seguendo la traccia delle pagine, ma lasciando comunque da parte la prefazione. È perché temo le presentazioni dei libri: non mi va che qualcuno mi suggerisca prima cosa succede dopo, che mi si dia una traccia o un'angolazione da cui prendere la mira, o una qualche chiave. Quando leggo qualcosa mi piace andare in esplorazione da solo: voglio che la lettura sia un viaggio nuovo, voglio farmi sorprendere, voglio che un libro mi apra davanti panorami e preferibilmente panorami di meraviglia. Una mezza sorpresa l'ho avuta già nel corso delle prime letture (solo mezza perché un po' lo conosco, credo di aver letto grande parte delle cose scritte da Marco e questo è davvero uno dei suoi lavori più complessi e riusciti), una sorpresa intera l'ho avuta scoprendo quest'ultimo tratto, la prefazione appunto. Mi ero fatto un'idea complessiva del libro e già stavo buttando giù degli appunti che avrei poi trasformato in questa segnalazione, ma nel leggere la prefazione di Haidi Giuliani mi sono accorto che praticamente tutto quello che avrei voluto raccontarvi lei l'aveva già scritto, prima e molto meglio di me. Cambio quindi strada e, magari più banalmente, vi racconto Lottavo romanzo dal rumore che fa, dai suoni che lo abitano. Marco Sommariva ama impastare le parole dei suoi racconti con una specie di colonna sonora: dà raramente delle indicazioni specifiche, non sceglie brani lunghi né canzoni intere, ma lavora a un mosaico di frammenti, di tracce, di scie sonore che nell'economia del suo lavoro di scrittore hanno altrettanto peso. Potrei descriverlo come quel disordine di suoni che escono dalle finestre delle case quando passi per una di quelle strade di quartiere fatte di poco o niente silenzio, rumori e voci a tutte le ore e in tutte le gradazioni. È un groviglio, comunque, ancora riconoscibile quello nel suo libro d'esordio – Il cristallo di quarzo – con i Radiohead mischiati ai Pink Floyd in una babele fitta di world-music mediorientale oppure maghrebina oppure da chissà dove. In uno dei suoi primi lavori – Vorompatra – ti entrava nelle orecchie un mix elaborato di Jackson Browne e chitarristi solitari in un angolo più UB40 e voci telefoniche più Patti Smith e Rem più Tom Waits: una mescolanza artificiale ma possibilissima, specie se letta come un'antologia veloce di suoni familiari a un ragazzo nato negli anni sessanta e cresciuto felice col pop degli anni settanta ed il rock degli anni ottanta, ma a disagio nella musica degli anni novanta e lasciato chiuso fuori da quella del millennio nuovo. Nel più recente Il venditore di pianeti alle orecchie arriva molto poco di riconoscibile: è un rumore continuo, bagnato e nebbioso come un novembre a nordest, di macchine che passano e clacson e frenate, grumi sonici che escono dalle radioline e dagli altoparlanti dei televisori, gente che grida per strada e dentro le stanze ma che ci raggiunge come da dietro un vetro opaco. Per caratterizzare Lottavo romanzo Marco cambia strada, e sceglie piuttosto esplicitamente Vladimir Vysotsky cantato con la voce di Eugenio Finardi (Il cantante al microfono, edizioni Velut Luna, 2008, velutluna.it: cercate questo cd e ascoltatelo con tutta l'attenzione possibile), riuscendo a intrecciare fili rossi tra ciascun racconto breve e ritagli di strofe del cantapoeta russo. Il libro ha dimensioni piccole, resta comodo tra due mani, ma mentre lo si legge si trasforma e diventa un album di fotografie sempre più grandi e sempre più nervose e intrise di inquietudine, oscurità, disperazione. Le parole sono il pretesto per raccontare storie di occasioni buone strappate di dosso ai protagonisti, sogni dai quali ci si risveglia con ancora i segni dei denti e delle unghie sul viso, giornate buttate via una dopo l'altra galleggiando in mezzo a un mare di gente e di spettri ma comunque soli, sprecate aspettando fuori di un portone che nessuno apre o al buio in cerca di una qualche luce da accendere. Lo stesso, le canzoni che lo abitano sono sconfinate dichiarazioni d'amore e d'indipendenza messe in bocca a un profeta alcolista, condannato a restare straniero dappertutto e sempre nonostante le traduzioni più amorevoli.
Marco Pandin