copertina

Fischia il vento


ROMANZO (2002)
Edizioni Caroggio
prima edizione

Prefazione di Don Andrea Gallo

Per i giovani è sempre difficile capire il senso di una storia che non appartiene loro per esperienza.
L’ autore di “Fischia il vento” si è dimostrato orgoglioso di dichiararsi “in direzione ostinata e contraria”. Ricostruisce le trame di pensieri e azioni che hanno caratterizzato un’epoca, superando la cortina di luoghi comuni, di falsità, di rimozioni, di pentitismi, di nefandezze che é stata ricostruita ad arte da chi ha avuto interessi a far dimenticare. Marco Sommariva ripercorre, come fosse al loro fianco, i percorsi di uno sparuto gruppo di genovesi in fuga da fascisti e tedeschi che danno loro una caccia spietata. Queste vicende confermano che, nei confronti delle tirannie, “ribellarsi si può, ribellarsi è giusto”.
Ivan, alle domande di don Mario, risponde: “Sì: domenica, durante la Messa, parla di noi e spiega a tutti che combattiamo perché un giorno ogni uomo possa avere il diritto di scegliere…“ Queste “storie” sono autenticamente vere.
E’ fondamentale, nei nostri tempi bui, chiedere aiuto ai ricordi, alle emozioni e alle riflessioni di chi ha vissuto giorno dopo giorno le situazioni, gli scenari, le problematiche, le ansie e le speranze di un mondo migliore. Questo libro lo testimonia in modo semplice, scorre agile da Certosa a Sestri Ponente, dal Basso Piemonte alla Val di Vara, fino alla Liberazione.
E’ vero: c’è un vecchio amareggiato, il sopravvissuto deluso, che “non ha ancora abbandonato sogni e speranze”.
“Chi è senza memoria è senza futuro”: a me sembra questo il messaggio del libro.
Ringraziamo ancora Ivan, Agostino, Igor, Aurora, Henry David, Eugenio, Ignazio, Giada e migliaia di compagni nelle città, nelle campagne d’Italia e d’Europa e in montagna, per la loro lotta, per la loro faticosa e pericolosa ricerca di libertà. Marco, l’autore, ha fatto di loro un mosaico di fiori; continuano a vivere per mezzo del suo scritto, delle sue parole e delle sue idee, delle sue scelte.
Rimarrete fiori preziosi, sempre belli nella vostra irripetibile unicità.
Leggendo questo scritto col cuore di un bambino, ancora una volta le nostre rotte saranno tracciate verso i fronti dove si combattono lotte di libertà. E la nostra libertà, lo sappiamo, sarà sempre monca fino a che non sarà libertà di tutti. Per concludere questa mia prefazione voglio dedicarvi la strofa finale di una poesia:
“Sono nato per conoscerti
per pronunciare il tuo nome:
Libertà”.
don Andrea Gallo
https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Gallo

Non prefazione di Gianfranco Manfredi

Marco Sommariva è uno scrittore. Di che genere? Tanti e nessuno in particolare. Racconti visionari (Ho ucciso Capossela), classiche short stories neo-gotiche (Adamo, Eva, Fuori Lilith ), romanzi brevi d’ambiente contemporaneo che incrociano la spy e la crime story (Il cristallo di quarzo), cronache crudamente realistiche (come la Cronaca di una morte annunciata, omaggio a Carlo Giuliani), recensioni spudoratamente acide (come quelle pubblicate sul mensile musicale Blow Up), romanzi gialli smarriti e desolati in cui l’avventura attraversa la nostra quotidianità, il nostro presunto quieto vivere, più di quanto non si sappia e non si voglia riconoscere (Vorompatra) e chissà quant’altro.
Marco Sommariva scrive bene. Il che dovrebbe essere normale. Ma chiedetevi quante volte ultimamente avete acquistato o rubato un libro e dopo una lettura di poche righe vi siete pentiti di non averlo lasciato dov’era. Quando l’unico orizzonte, per uno scrittore, diventa scrivere per il mercato, non si può pretendere che i suoi libri non condividano sostanza e destino delle altre merci allineate sugli scaffali e riassumibili nel loro valore di scambio. L’uso le annulla. L’uso è nullo. Carne che non sa di carne, coloranti, additivi per richiamare odori, sapori che la Cosa si limita appunto ad evocare, prodotti per tutti e per nessuno in particolare, per tutte le circostanze e per nessuna che significhi davvero qualcosa. Roba malfatta, prigioniera della sua confezione e del prezzo imposto. Tanto più commerciale, quanto più da macero.
Marco Sommariva non scrive per il mercato. Bisogna andarselo a cercare, o cogliere l’occasione quando ci s’imbatte fortuitamente in qualcosa di suo. E allora, non è l’impulso al consumo, ma la curiosità a guidarci, la curiosità e quell’istinto che sa ancora diffidare dell’apparenza e c’indirizza al Non Conforme, luogo dove le delusioni non sono certo maggiori che nel Conforme, ma dove le scoperte sono molto più uniche e preziose.
Marco Sommariva non è un mio amico. Non lo conosco. Mi è stato segnalato da un’altra persona che non conosco affatto, un Alfredo che mi ha scritto di lui via internet, ed è già confortante che qualcuno usi internet per parlare di altri e non di sé, è un buon segnale. Grazie Alfredo. Così ho ricevuto gli scritti di Marco e così li ho letti. Grazie Marco perché li hai scritti. E io ora non scrivo queste righe per compiacenza, casomai avvertendone una certa inutilità, visto che l’autore non ha bisogno di prefazioni per venire apprezzato, consideratela dunque una non-prefazione, una semplice testimonianza personale. Ho visto la sua faccia su una copertina, questo sì, e so che è un libertario, come me, ma l’ho scoperto dopo, leggendolo e ritrovandola, questa sua anima anarchica, nel suo stile. Il che è come dire che un anarchico lo si riconosce da come cammina, non solo per la direzione che imbocca. Del resto è anche genovese, come De Andrè, come Paoli, tanto per dirne due, di anarchici naturali, di mare e di vento, di carne e di sangue, di prosa lirica senza lirismo, di realismo non compiaciuto e non avaro di sogni, di sensuali abbandoni senza culto della decadenza, di profonda misura interiore mai rinchiusa nel soggettivismo dei solipsisti. Un autore trasparente perché è solo la trasparenza che ci conduce oltre l’ostacolo.
Marco Sommariva, infine, è uno che sa ascoltare. Credo sia la qualità migliore che possa avere uno scrittore. Nei suoi scritti, continue sono le aperture al narrare altrui. Compare uno e racconta, di sé, degli altri, di quello che ha capito, di quello che non ha capito, non in teoria, ma nella concretezza dell’episodio. Non c’è storia senza storie. E le storie possono essere compiute o frammentarie, questo non ha alcuna importanza. Ma una persona, fosse pure un fantasma, che non racconta storie è socialmente persa, come una che non sa ascoltarle.
Nel paese dove sono venuto ad abitare, pochi giorni fa, esce da una casa per metà abbandonata un anziano. Io sono fermo lì davanti, con il mio cane che piscia di suo e annusa il piscio altrui, e sto cercando di decifrare, sulla facciata della casa, una scritta fascista in parte scolorita. Così l’anziano mi racconta di quando piombò in paese una squadraccia fascista per reclutare a forza ragazzi per Salò, ragazzi nascosti nelle soffitte e nelle cantine o dietro una catasta di legna, ragazzi che non avevano scelto la Resistenza, che non volevano proprio scegliere niente. Ragazzi scovati e presi a calci, uno ridotto in fin di vita, fino alla protesta delle donne, fino alla fuga degli squadristi perché ormai usciva gente dalle case, decisa a non subire. E io resto ad ascoltare quella storia, che qua e là il dialetto locale rende indecifrabile come la scritta. E quell’anziano non è un comunista, non è un anarchico, da certi accenni mi par di capire che forse vota persino a destra, se il voto significa qualcosa. E’ una persona che racconta a un tizio che non ha mai visto, un tizio con un cane, fermo di fronte a casa sua.
Nel libro che state per leggere, Marco ha raccolto alcuni suoi ascolti, restituendoci la storia collettiva di un gruppo di resistenti, senza farne occasione per un romanzone epico, con il pudore e il rigore di chi, a dispetto degli artifici, preferisce cogliere frammenti di verità vissuta. E in questo modo, per usare le parole di Don Gallo, che ha scritto la prefazione alla prima edizione di questo libro, Marco Sommariva “ricostruisce le trame di pensieri e azioni che hanno caratterizzato un’epoca, superando la cortina di luoghi comuni, di falsità, di rimozioni, di pentitismi, di nefandezze che è stata costruita ad arte da chi ha avuto interessi a far dimenticare”.
Le vite, le memorie, i brandelli d’esperienza dei nostri padri, negati dalle istituzioni, abbandonati come sassi nel deserto, raccolti per un istante da qualcuno, accarezzati nella loro bizzarra bellezza frutto di chissà quali piogge remote, erosioni di vento e di polvere, possono anche venire incastonati, e lo sono a volte, in una nuova e complessa forma artistica, possono diventare, che so, un mosaico, un ordinato e multicolore pavimento o ripiano di tavolo da proteggere sotto vetro, ma forse è meglio goderseli lì, in quel loro, nostro deserto, rispettandoli come sacri, per nutrirne la nostra fede smarrita, non per farne Opera Consacrata che celebri un’estranea e astratta grandezza. Come recita un detto degli indiani Chippewa: “Grande è la fede di chi riesce a smuovere le montagne, ma più grande ancora è la fede di chi crede che stanno bene dove sono”. A patto di guardarle, percorrerle passo dopo passo, toccarle con mano e raccontarle a chi non le conosce o non sa, ancora, riconoscerle, nonostante le abbia attorno.
Gianfranco Manfredi
https://it.wikipedia.org/wiki/Gianfranco_Manfredi

Consiglio di Giuliano Montaldo.

Leggendo “Fischia il vento” le parole sono diventate immagini e gli episodi sequenze in bianco e nero coinvolgenti, appassionanti che narrano eroismi, sofferenze, torture, morte... Chiudendo gli occhi ho udito un brano di una canzone “... e se poi ferito muore non piangetelo perché se libero un uomo muore non importa di morir...” Libero!
Grazie Marco per le tante emozioni.

Giuliano Montaldo
https://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_Montaldo

Consiglio di Giovanni Pesce.

Scrivere e parlare del romanzo “Fischia il vento” è importante in questa vigilia del 60° anniversario della Liberazione.
Bene ha fatto l’amico Marco Sommariva a scriverlo.
Poi è il tempo, alto è il pericolo di non sapere tradurre nelle parole la grandiosità dei fatti, piccoli sacrificati passi che uniti a cento e cento compagni portarono alla conquista della libertà. Il libro pone l’attività della Resistenza. Memoria e riflessione sono valori in cui fare riferimento: l’una ha necessità dell’altra.
“Fischia il vento” che è stato già letto da molti cittadini e che ha avuto un caloroso successo, vuole testimoniare mentre nel Paese è in corso una violenta operazione di delegittimazione e di azzeramento del nostro passato, una lucida e mirata operazione politica.
La Costituzione è figlia della Resistenza e lo dico agli immemori, a coloro che vorrebbero farne carta straccia.
“Fischia il vento” è stata una lotta dura, difficile, che costò un prezzo altissimo di Caduti.
I partigiani di “Fischia il vento” hanno combattuto per la libertà, la democrazia, la pace.
Noi esigiamo che questa Italia viva e si sviluppi lungo i principi dettati dalla lotta partigiana, pietra fondamentale contro ogni logica d’avventura.

Giovanni Pesce
(Med. D’oro V.M.)
https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Pesce


Nel 2019 il romanzo "Fischia il vento" è premiato dall'A.N.P.I. come vincitore del Premio letterario "Fischia il vento... infurian le parole".

Recensione di Marco Pandin - numero 283 di A-Rivista Anarchica - estate 2002
Il vento dalla Liguria

Ecco un nuovo romanzo appena pubblicato dal giovane scrittore genovese Marco Sommariva: si tratta di Fischia il vento.
Con questa nuova uscita Marco non solo conferma tutte le promesse fatte con i suoi lavori precedenti (comunque puntualmente mantenute), ma dimostra che le belle cose che si sono dette in giro e scritte a suo proposito non erano esagerazioni di giornalisti recensori irretiti da un qualche ufficio stampa intenzionato a “spingerlo” nel mondo dell’editoria. Erano complimenti del tutto meritati: il ragazzo, insomma, gioca bene e ha talento.
Il suo primo lavoro Il cristallo di quarzo (pubblicato nell’ottobre 1999 dalle edizioni Sicilia Punto L, ed allora segnalato su queste pagine da Marco Casamonti), era un misto curioso di noir e spy story costruito attorno ad una soluzione immaginaria ed al tempo stesso assai verosimile dei fatti di Ustica del giugno 1980, a tutt’oggi non ancora risolti ufficialmente dai nostri organi governativi.
Lo stile in questo scritto d’esordio è veloce, il ritmo della scrittura paragonabile al respiro urgente del rock.
Il cristallo di quarzo è un racconto gonfio di suoni (CSI, telefonate, treni, televisori, autobus, Pink Floyd, altoparlanti, Radiohead, clacson, etc.), non una colonna sonora tradizionale, badate: sembra proprio che sia il racconto a fare rumore. Trovo che Marco, sin dall’inizio, abbia mostrato una certa abilità nel caratterizzare i personaggi dei suoi racconti con tratti essenziali e precisi: le parole sono studiate una ad una nel colore e nel peso, l’autore ci dà per indicazione pochi elementi e lascia fare il grosso del lavoro alla fantasia di chi legge. Non è avarizia, questa, ma un grande regalo che ci viene fatto.
Bene, questo primo passo editoriale sembra gli abbia portato fortuna: lo scorso anno l’abbiamo ritrovato vincitore del web-concorso “La staffetta degli scrittori” promosso dalla libreria online bol.com, poi s’è letta la sua storia d’amore e d’anarchia Ho ucciso Capossela (Edizioni Cr.Es.Pi., Genova 2001, prezzo 1,55 euro).
Marco in questo lavoro sperimenta, si spinge un po’ più avanti senza accontentarsi delle etichettature semplici (“…assomiglia quasi a Pino Cacucci”, s’è spesso letto e detto). È questa una storia assai strana, anzi una non-storia, tutta fatta di frasi corte appiccicate tra loro e tenute assieme come per un miracolo cinematografico (oppure per bravura, dipende dai punti di vista). Parole tenute assieme con una colla fatta d’immaginazione che stridono e fanno scintille, cibo buono per l’immaginazione. Un po’ sullo stile di Ho ucciso Capossela è Non ci lasceremo mai, il cut-up che Marco ha scritto per la raccolta Mille papaveri rossi, un cd di prossima pubblicazione che raccoglie alcune canzoni di Fabrizio De André interpretate da musicisti estranei e/o marginali rispetto alla scena musicale discografica. Beh, insomma: io l’ho letto. Voi per favore abbiate ancora un po’ di pazienza...
Veniamo finalmente al nuovo libro. In Fischia il vento Marco s’è messo a fare tutt’altra cosa rispetto al passato. Il genere stavolta è storico contemporaneo: queste pagine raccontano di un gruppo di partigiani impegnati in un’azione di guerriglia nella zona dell’entroterra genovese, e della rappresaglia terribile che ne seguì. Disgraziatamente, questa è una storia vera. Anzi, sono tanti pezzi di storie tutte vere, anche quelle inventate. “Cicatrici della memoria”, così le chiama Marco, che ha iniziato a lavorare a questo progetto raccogliendo i racconti dei suoi genitori: “storie di miseria, lotta, fame, rabbia, impotenza”, così le chiama.
In questo libro c’è anche un poco delle storie che i miei genitori raccontavano a me quand’ero piccolo: non riuscivo a capire che cosa poteva significare vivere “in tempo de guera”, ma dagli occhi grandi di mia madre che si velavano improvvisamente e dal nervosismo delle parole spezzate di mio nonno capivo che era una cosa brutta che c’era stata e che bisognava impedirne il ritorno.
Anche questo libro, al pari delle altre cose scritte da Marco, ha un suono proprio: un rumore assordante.
Fischia il vento è, senza mezzi termini, un pugno forte sullo stomaco. Gronda (letteralmente) sangue, passione, morte, rabbia, violenza. Eppure, conficcate in mezzo alle parole, troviamo schegge di speranza che nonostante una distanza lunga sessant’anni che ci separa dalla Resistenza sono così taglienti da far male. Taglienti e assordanti, più del silenzio pesante con cui si vuol seppellire la storia recente del nostro paese. Ordigni del cuore che scoppiano a distanza di una vita, di molte vite anzi, liberando oggi intatto e terribile il fragore osceno delle granate e degli spari che rimbombava nella testa di chi allora, a neanche vent’anni, non s’era rassegnato e aveva trovato il coraggio oppure la disperazione di scappare di casa e fuggire in montagna.
La storia non è inchiodata al 1945 ma ha una coda lunga fino ad oggi: ancora, un misto di passione e speranza...che non vi racconterò.

Marco Pandin