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Sbirri!


(2023)
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“Sbirri!” raccoglie frasi di scrittori di tutto il mondo, pubblicate negli ultimi centosettant’anni e aventi come oggetto le forze dell’ordine, dalla jugendpolizei citata da Anna Frank nel suo Diario ai poliziotti ausiliari di Patrick Modiano, dai carabinieri di Beppe Fenoglio ai carabineros di Roberto Bolaño, dalla policìa di Jim Shepard ai gendarmi di Carlo Collodi, dagli sbirri di Jean-Patrick Manchette a quelli di Paco Ignacio Taibo II.

Ne scaturisce un quadro a tinte fosche, molto differente da quanto ci raccontano da lustri fiction televisive e notiziari accuratamente telecomandati; a dipingere questa tela scura sono autori come Camus, Chatwin, Conrad, Kafka, Kipling, London, Orwell, Remarque, Simenon, Steinbeck, Yourcenar, Zola, solo per citarne alcuni fra gli oltre cento presenti.
Insieme ai fini di critica, discussione e ricerca, questa raccolta di citazioni vuole riportare alla luce stralci di Storia troppo spesso dimenticati, e lucide e alternative osservazioni di autori capaci di preannunciare con largo anticipo a quale catastrofe sociale stavamo andando incontro.

Introduzione di Checchino Antonini

«Se avessi uno come Rocco Schiavone vicino di casa non uscirei mai, avrei sempre paura di poter essere picchiato o venduto per i suoi comodi», ha detto una volta Giovanardi. Era il novembre del 2016, e il poliziotto di carta scaturito dalla penna di Antonio Manzini, era spuntato sulla TV di stato con un certo successo. «Ladro, corrotto, corruttore, procacciatore di prostitute, picchia i testimoni, massacra di botte i cittadini, poi si fa i cannoni, ma come si fa?», sbottò Giovanardi chiedendo a RaiDue di arrestare Schiavone, nel senso di interrompere la programmazione della fiction.

Ma in Italia succede spesso, anche troppo, di incontrare “vicini di casa” in divisa, di quelli che spaventerebbero Giovanardi Carlo, ex carabiniere ed ex democristiano, padre – insieme a Gianfranco Fini – della peggior legge possibile sulle droghe, o la migliore, dal punto di vista delle narcomafie che brindano a ogni giro di vite del proibizionismo. Quello che turbava questo oscurantista tipo di statista (l’unico a credere che Cucchi e Aldrovandi siano morti per droga) è che il successo di Schiavone intacca un immaginario costruito con pazienza ed energie dagli uffici pubbliche relazioni della polizia e dell’arma dei carabinieri con le fiction più tranquillizzanti a reti unificate, che costruiscono l’immagine rassicurante di forze dell’ordine umane, senza macchia, coerenti con le rilevazioni di Eurispes secondo cui continuerebbe a crescere nella società il sentimento di fiducia verso queste. I carabinieri raccolgono l’apprezzamento del 70,5% del campione (nel 2018 era il 69,4%), la polizia del 71,5%. Si tratta di un’indagine contenuta nel 31° Rapporto Italia, condotta tra dicembre 2018 e gennaio 2019, analizzando 1.132 questionari somministrati a un campione rappresentativo. Tanto per fare un paragone, la fiducia in Mattarella è “solo” del 55%. Difficile ottenere dei dettagli sull’impegno delle Pubbliche Relazioni delle forze dell’ordine nella realizzazione delle fiction di Rai o Mediaset, ma sappiamo che un funzionario del Viminale controlla e ritocca le sceneggiature nelle parti che riguardano l’agire degli attori in divisa. Più di qualche addetto ai lavori, però, ammette in privato di far fatica a riconoscersi nel maresciallo Rocca o negli agenti del commissariato Sant’Andrea.

Quando un cronista riuscì a spulciare, dieci anni fa, la chat intranet Doppia vela, messa a disposizione dall’amministrazione del Viminale, restituì un’immagine ben diversa del senso comune degli “sbirri”, uno spirito di corpo che si cementava sugli abusi commessi al G8 di Genova: “L'Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”, era una delle frasi più emblematiche di quelle conversazioni in cui si rivendicava ogni abuso e reato commesso nella zona gialla, alla Diaz e a Bolzaneto.

I processi di malapolizia raccontano un altro film, diversissimo dalla fotografia idilliaca della ricerca Eurispes, dall’omicidio Aldrovandi al calvario di Stefano Cucchi, dalle ammazzatine – come direbbe Montalbano – di Davide Bifolco, Jefferson Tomalà e Dino Budroni ai pestaggi finiti tragicamente di Domenico Ferrulli o Giuseppe Uva, fino ai ripetuti casi di tortura denunciati soprattutto nelle carceri, ma anche nei commissariati, nei “lager” per migranti e nelle caserme. La macchina repressiva di uno stato non funziona per garantire la sicurezza dei cittadini. Non solo, almeno. E’ un’operazione complicata legata a doppio filo con le vicende della lotta di classe e con la storia di quel paese. Per questo è cruciale la colonizzazione dell’immaginario, da sempre, a ogni latitudine. Perché non è semplice, guardando all’Italia, dire che polizia e carabinieri sono transitate, grazie all’amnistia Togliatti, senza purghe dal fascismo alla Repubblica; perché è insostenibile dire che la polizia e l’arma dei carabinieri siano “vicine alla gente” quando i loro uomini sono stati autori di stragi di braccianti come ad Avola nel ’68, o di eccidi come quelli del giugno del 1960, per un totale – a partire dal 1948, entrata in vigore della Costituzione – di almeno 700 vittime. La fiducia nelle forze dell’ordine forse non si basa su un dato esperienziale, ma su una narrazione efficace.

Forse non è un caso, a esempio, che una delle più importanti società di produzione di fiction abbia annunciato, ma poi congelato, la fiction sul caso Aldrovandi: come raccontare in maniera rassicurante la vicenda di un diciottenne di Ferrara ucciso nel 2005 in un violentissimo “controllo” di polizia da parte di quattro agenti condannati definitivamente, ma coperti dai depistaggi messi in atto da una parte della questura?, e come raccontare che il congresso nazionale di uno dei più grossi sindacati di categoria abbia tributato una standing ovation ai quattro colleghi già condannati in definitiva? Nemmeno è un caso che sia di carta l’unico poliziotto a chiedere scusa per la mole di misfatti commessi a Genova da centinaia di suoi colleghi nelle giornate del luglio 2001; si tratta del commissario Montalbano, sconvolto dal «comportamento non certo esemplare delle forze dell’ordine in quelle terribili giornate», come ebbe a scrivere Camilleri provocando una serie di dichiarazioni sdegnate di quei politici sdraiati sulle versioni ufficiali. “Il giro di boa” (Sellerio, 2003), il settimo romanzo della serie di Montalbano, inizia con la scena del commissario di fronte alla televisore: Con un’ariata assolutamente indifferente, la giornalista del tg aveva detto che la procura di Genova, in merito all’irruzione della polizia alla scuola Diaz nel corso del G8, si era fatta pirsuasa che le due bombe molotov, trovate nella scuola, erano state portate lì dagli stessi poliziotti per giustificare l’irruzione. Questo faceva seguito – aveva continuato la giornalista – alla scoperta che l’agente il quale aveva dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di accoltellamento da parte di un no-global, sempre nel corso di quell’irruzione, aveva in realtà mentito: il taglio alla divisa se l’era fatto lui stesso per dimostrare la pericolosità di quei ragazzi che invece, a quanto si andava via via svelando, nella scuola Diaz stavano pacificamente dormendo. Ascutata la notizia, per una mezzorata Montalbano era restato assittato sulla poltrona davanti al televisore, privo della capacità di pinsari, scosso da un misto di raggia e di vrigogna, assammarato di sudore. Non aveva manco trovato la forza di susirisi per rispondere al telefono che stette a squillare a longo. Bastava ragionare tanticchia supra quelle notizie che venivano date col contagocce e con governativa osservanza dalla stampa e dalla televisione per farsi preciso concetto: i suoi compagni e colleghi, a Genova, avevano compiuto un illegale atto di violenza alla scordatina, una specie di vendetta fatta a friddo e per di più fabbricando prove false. Cose che facevano tornare a mente episodi seppelluti della polizia fascista o di quella di Scelba.

La storia del romanzo poliziesco, così come la traccia Ernest Mandel nel suo “Il romanzo poliziesco, una storia sociale” (Alegre, 2013), è anche la storia di «un genere letterario che mira a persuadere i suoi lettori ad accettare la legittimità della società borghese», anche se la sua «funzione di integrazione sociale è scemata per trasformarsi, di fatto, in una funzione di disintegrazione» quando ha fatto la sua irruzione sulla scena il noir. La letteratura, anche quella di consumo, oscilla da sempre tra due polarità, tra una funzione consolatoria e una di denuncia e inchiesta sociale, basti pensare al noir mediterraneo di Massimo Carlotto e Jean-Claude Izzo, o André Héléna prima di loro, solo per citare.

Da sempre la lotta per la colonizzazione dell’immaginario trasmigra dal reale al virtuale e viceversa. In “Ritorno al mondo nuovo” (Mondadori, 1958), Aldous Huxley mette «soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello», tutti insieme nell’élite al servizio dell’oligarchia.

E la ricerca di Sommariva, distillata dalla lettura di 127 romanzi, dà conto di come nella letteratura, da un secolo e mezzo, alberghino anche i germi della controinformazione, dell’inchiesta sociale. Perché la letteratura è il territorio della libertà, se ne può fregare delle trappole delle leggi sulla diffamazione, cucite su misura di chi ha i manganelli dalla parte del manico (ma spesso li impugna al contrario perché fanno più male). Da quando Jack London scrisse “Il vagabondo delle stelle” (Adelphi, 1915) – «Rifletteteci per un momento. Pensate al lavoro minorile, alla corruzione che dilaga nella polizia e nella politica, pensate ai cibi adulterati, alle figlie della povera gente, che sono delle vere e proprie schiave» – è trascorso oltre un secolo, ma potrebbe essere stato scritto cento anni dopo e forse fra cent’anni. Quando nelle strade di Parigi rimbomba lo slogan “tout le monde déteste la police”, come non pensare a Friedrich Dürrenmatt che sessant’anni prima osservò nel “Il giudice e il suo boia” (Adelphi, 1952), che «gli scrittori non hanno mai amato i poliziotti». E allora che la ricerca di queste tracce continui dentro e fuori i territori dell’immaginario. Perché il poeta sei tu che leggi.
Checchino Antonini